PER UNA RIFLESSIONE APERTA, PER UNA VERA STAGIONE DI RIFORME PER LA SANITÀ PUBBLICA
Il dato è tratto. È giunto il momento di reagire e di avviare una riflessione dialettica, laica, complessiva (vedi anche gli Spunti per una linea programmatica) e, allo stesso tempo, anche di lanciare un appello, parafrasando Don Sturzo, ai medici “liberi e forti”, alle donne e uomini in camice bianco, e soprattutto ai più giovani, perché si avvii con “energia” una nuova stagione di riforme in Italia, e, più in generale, guardando all’Europa.
La legge 833, come la legge 180, entrambe del 1978, giungono a conclusione di una lunga stagione di espansione delle politiche di welfare nel nostro paese promosse anche dal mondo sindacale confederale a partire dalla metà del secolo scorso, con l’intento di migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei cittadini italiani in un contesto di forte crescita economica. Nel corso del trentennio successivo l’Italia ha registrato una progressiva espansione delle politiche di welfare sia sul versante previdenziale che su quello delle tutele del lavoro nonché su quelli sanitario e sociale. Con riferimento all’ambito sanitario, sia sul versante professionale sia su quello dell’impegno sindacale, non è superfluo ricordare che già alla fine degli anni ‘60 il governo di centrosinistra portò a compimento la legge di riforma ospedaliera, la cosiddetta legge Mariotti, la 132 del 1968, classificando gli ospedali sulla base della loro offerta di servizi in zonali, provinciali e regionali; pianificandone la programmazione nazionale; strutturandone l’organizzazione e normando lo stato giuridico del personale dipendente attraverso i decreti attuativi. L’espansione caotica del sistema mutualistico, legato alle specificità professionali, consentì di costruire l’altra gamba dell’assistenza sul territorio con l’estensione delle prestazioni mediche generali e specialistiche. Il contesto è quello di un paese giovane e in crescita e la stratificazione epidemiologica delle malattie ha un impatto modesto sul versante della cronicità. La distribuzione statistica per sesso e per classi di età su base quinquennale è emblematicamente rappresentata da una piramide, la cosiddetta piramide delle età. Il processo di espansione del welfare e di istituzione del SSN è stato vissuto e accompagnato da una generazione esistenzialmente, emotivamente e, a volte, appassionatamente, coinvolta in questa grande avventura. A quarant’anni dalla legge di riforma emergono oggi criticità, peraltro già iscritte nel suo codice genetico, a fronte delle quali il Servizio sanitario nazionale, meglio ancora le diverse espressioni regionali del SSN, stentano a dare risposte adeguate. Due i temi di grande attualità che impattano sulla quotidianità dell’assistenza sanitaria e dei servizi erogati ai cittadini: l’emergenza e la cronicità.
Il modello erogativo dell’assistenza sanitaria, come normato dalla L.833, è figlio del suo tempo, di quel tempo, e svela nell’attualità la sua parziale inadeguatezza, tanto da sollecitare negli osservatori più avvertiti la richiesta di una stagione di riforme. La l. 833 infatti eredita e ripropone in parte i modelli assistenziali preesistenti. Da un lato una assistenza ospedaliera forte di una riorganizzazione in fieri cominciata con la legge 132 del 1968, che ha consolidato l’offerta ospedaliera, affinandola negli anni, incalzata da una capacità tecnologica e diagnostica crescente, anche attraverso opportune modifiche delle modalità di ricovero e dello stato giuridico del personale medico dipendente prima, dirigente a partire dal contratto del 1996, dopo il d.lgs.vo 502/92. Il ricovero in ospedale è diventato sempre più selettivo, di breve durata e finalizzato all’intervento sulle patologie per acuti, respingendo in un limbo assistenziale tutto ciò che non ha una dignità di patologia espressa attraverso un DRG. Il passaggio del pagamento del ricovero ordinario dalla giornata di degenza al DRG, ha indubbiamente ‘efficientato’ il sistema, mettendo fuori dall’assistenza ospedaliera tutte quelle patologie e quei problemi sanitari che non rientrano in uno schema codificato e che, invero, richiedono assistenza, rivolgendosi all’ospedale, perché all’ospedale continuano a riconoscere la capacità di una risposta esaustiva a un bisogno soggettivamente percepito come urgente o altrimenti non affrontabile. La conseguenza immediata è l’affollamento del pronto soccorso, di cui esportiamo vergognose immagini in tutto il mondo, il cui modello organizzativo non è stato adeguatamente rivisitato, a fronte tra l’altro di una progressiva riduzione dei posti letto (10 p.l. per mille abitanti nel 1978, 3 posti letto per mille abitanti oggi), chiusura di ospedali e dei pronti soccorso annessi.
Certo il legislatore si è premurato a partire dagli anni ‘90 di riorganizzare il settore dell’emergenza urgenza affrontando il tema dell’emergenza territoriale e istituendo un sistema, il 118, che dovrebbe privilegiare le patologie acute da indirizzare in ospedale, anche attraverso percorsi mirati (reti tempo dipendenti, ecc.) e indirizzare altrove (dove?) il resto della domanda, quando comunque presenta un problema non risolvibile a domicilio. Appare quindi strategica l’adeguata organizzazione della rete dell’emergenza territoriale e la qualificazione del personale di primo soccorso che, stabilizzato il paziente, dovrebbe indirizzarne la destinazione avvalendosi del supporto della centrale operativa. La regionalizzazione del SSN, figlia di un malinteso federalismo sanitario, ci propone oggi modelli con forti differenze da regione a regione, con una interpretazione della funzione del 118 sempre più minimalista e residuale, non soltanto per le qualifiche professionali e la dotazione organica del personale, ma anche per la filosofia che la ispira. La conseguenza inevitabile di queste politiche è un ulteriore peggioramento delle già difficili condizioni del pronto soccorso ospedaliero.
Sul versante della cronicità (sono anche i pazienti fragili quelli che ‘affollano’ il pronto soccorso e le problematiche degli ospedali e dell’emergenza e della cronicità non sono affatto disgiunte, ma qui non possiamo che schematizzare i temi), il SSN eredita un modello assistenziale di impronta mutualistica, pur modificando le modalità erogative e inglobando medici di famiglia, pediatri di libera scelta e specialisti all’interno di un contesto ‘libero professionale’ parasubordinato, che risponde alla stessa logica prestazionale dell’offerta mutualistica, ancorché i rapporti di ‘lavoro’ siano strutturati su base oraria (rapporto orario degli specialisti ambulatoriali, apertura oraria degli ambulatori di medicina generale e di pediatria di libera scelta). La medicina di famiglia è una medicina di attesa nel 1978 e negli anni seguenti, eredità del sistema mutualistico, a fronte di un quadro epidemiologico e demografico, caratterizzato da una popolazione giovane e ‘sana’, da un speranza di vita che non superava i 75 anni, con una diffusione delle patologie croniche, già importante ma non dirompente. L’offerta sanitaria nel territorio, sul versante medico, era in grado di rispondere a quella domanda, anche negli ospedali dove il ricovero non era così selettivo, come dopo l’introduzione dei DRG e gli accertamenti diagnostici richiedevano diversi giorni. Quarant’anni dopo, lo scenario epidemiologico è profondamente mutato: si vive più a lungo e si vive meglio, anche grazie ai medici e alla medicina; la speranza di vita viaggia verso gli 85 anni, (il nostro è tra i paesi al mondo più longevi), la prevalenza e l’incidenza delle patologie croniche rappresentano un problema crescente sia sul versante della spesa sanitaria sia su quello dell’organizzazione dell’assistenza, ma…ma la cassetta degli attrezzi è rimasta quella di quarant’anni fa: l’offerta professionale della medicina del territorio è inadeguata e risponde ancora a criteri inattuali, nonostante i ripetuti tentativi di restyling dell’organizzazione e le molteplici e insufficienti risposte approntate a livello regionale.
Il punto è che quegli strumenti non sono più adeguati ai nuovi bisogni espressi dalla domanda di salute, epocali e inediti, quanto meno nelle dimensioni. Ecco perché – ma sono soltanto alcuni spunti, altri temi necessitano di un approfondito confronto, a partire dalla professione medica e dalla percezione del suo ruolo in questo nuovo contesto – appare necessaria una rivisitazione urgente del SSN e della sua legge istitutiva. Una riforma delle riforme che, confermando i principi fondamentali ispiratori della L.833, anzi rafforzandoli stante le disuguaglianze e le iniquità prodotte da una interpretazione regionalistica spinta ai limiti della costituzionalità, riorganizzi l’offerta sanitaria a partire dal ruolo e dal rapporto di lavoro dei professionisti, medici, infermieri e altri operatori della sanità; quindi approntando omogeneamente sul territorio nazionale una adeguata risposta alla nuova domanda di salute: non ci sono cittadini lombardi e cittadini siciliani o cittadini pugliesi e cittadini friulani, siamo tutti cittadini portatori di diritti, e se condividiamo con il nostro voto le responsabilità di chi ci governa in ambito regionale e locale, crediamo che la risposta ai bisogni di salute, come alla domanda di giustizia, non possa e non debba comunque dipendere dalla residenza, perché se è vero che il ricovero è possibile in qualsiasi ospedale d’Italia, è altrettanto vero che la risposta alla domanda di salute dei pazienti cronici non può che essere formulata da una medicina di prossimità.